Report ‘Le sfide del 2023, tra crisi energetica e guerra nel cuore d’Europa’ presentato dall’Ufficio Studi oggi in occasione di “Femminile, impresa di valore”, la Convention Movimento Donne Impresa Confartigianato, i suoi highlights e l’Appendice statistica ‘Imprese femminili e occupate al 2021 e dinamica su pre-pandemia per regione e provincia’ (ampliamento con dinamica 2019-21 e caratteri dell’artigianato dell’Appendice del 4 marzo 2022) in formato .xlsx che contiene i seguenti dati per regione e provincia:
– Imprese femminili nel 2021: totali, giovanili e a conduzione straniera e giovanili a conduzione straniera e dinamica rispetto al 2019, pre-crisi
– Dinamica donne occupate nel 2021 rispetto al 2019, pre-crisi
– Dinamica di imprese attive femminili, non femminili e totali nel III trimestre 2022 rispetto allo stesso trimestre del 2019, pre-crisi
– Imprese artigiane femminili nel 2021: totali, giovanili, a conduzione straniera e giovanili a conduzione straniera e dinamica rispetto al 2019, pre-crisi

 

I contenuti del report ‘Le sfide del 2023, tra crisi energetica e guerra nel cuore d’Europa’

Continua la ripresa dell’economia grazie in particolare al settore driver delle Costruzioni le cui imprese sono per il 6,4% femminili.
Un contributo importante arriva anche dalla ripresa del turismo che mostra una crescita delle presenze trainata da quelle degli stranieri impattando positivamente soprattutto sulle imprese di Alloggio e ristorazione che contano 135.062 imprese femminili.
Nella pandemia e nel primo stadio della ripresa si è registrata però una maggiore erosione per la componente femminile del valore aggiunto diminuito del 3,6% a fronte di una media del 2,0%.
Lo scenario economico continua a risentire però del clima di incertezza collegato all’invasione dell’Ucraina e della conseguente amplificazione della crisi energetica: a dicembre 2022 l’Italia registra la più alta inflazione energetica nell’Unione europea ed è inoltre seconda nell’Ocse dietro alla Turchia. Queste dinamiche aumentano il gap di competitività delle imprese italiane soprattutto se piccole che pagano il più elevato prezzo dell’elettricità in Ue e più che doppio rispetto a quello pagato da una piccola impresa francese.
Dallo scoppio della guerra in Ucraina si è presentata una ulteriore anomalia data dal disaccoppiamento (decoupling) tra prezzo del gasolio e quello della benzina: dallo scoppio del conflitto il prezzo della benzina, al netto delle imposte, è sceso mentre quello del gasolio è salito mentendosi stabilmente più alto di quello della benzina. Risultano più colpiti i sette comparti manifatturieri a maggiore intensità energetica – alimentare, carta, chimica, gomma e materie plastiche, metalli, tessile e vetro, ceramica, cemento ecc – che contano 29.066 imprese femminili registrate (20,9% del totale imprese energivore), di cui 17.284 sono artigiane (25,8% delle imprese artigiane energivore). Inoltre i settori energivori contano 380mila donne addette e, sul lato dell’offerta, 1.425 imprese femminili nei settori dell’energia, quelli dei prodotti da raffinazione petrolifera e della fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata.
La fiammata inflazionistica ha portato all’adozione di una vigorosa stretta monetaria da parte della Banca Centrale Europea: nell’ipotesi di una traslazione completa dell’aumento dei tassi ufficiali sui tassi pagati dalle imprese, l’impatto in termini di maggiore costo del credito sarebbe di 270 milioni di euro su base annua per le quasi 111mila piccole imprese femminili affidate.
L’analisi dell’imprenditoria femminile ne tratteggia i punti di forza. L’Italia è 1° in Ue per numero di imprenditrici e lavoratrici autonome e sono 1.342.703 le imprese femminili registrate, di cui 219.198 sono imprese artigiane con una quota del 16,3%: le imprese femminili rappresentano il 22,1% del totale imprese ed il 17,0% dell’artigianato. In particolare, sono 151.952 imprese femminili giovanili, di cui 29.470 artigiane. Inoltre sono 155.701 le imprese femminili a conduzione straniera e 25.760 le imprese femminili giovanili a conduzione straniera; nell’artigianato si contano 33.560 imprese artigiane straniere femminili e 5.069 imprese artigiane giovanili femminili straniere. In termini di dinamica delle imprese rispetto al 2019, sono in lieve crescita sia il totale delle imprese femminili sia le imprese femminili artigiane, in controtendenza rispetto alla flessione delle donne occupate. Tra pandemia e crisi energetica, la resilienza del sistema delle imprese è basata esclusivamente sulla crescita delle imprese femminili attive mentre le restanti imprese sono in lieve calo.
Il mercato del lavoro ha completamente recuperato i livelli pre-pandemia ma permane una elevata e crescente difficoltà di reperimento dei lavoratori. In particolare per il 2022 le imprese hanno valutato come difficili da reperire il 37,1% delle entrate per cui viene ritenuta più idonea una donna, equivalenti a 348.080 entrate, incidenza inferiore alla media del 40,5%. Un altro paradosso è che sono 651mila le giovani donne under 35 che non studiano, non sono in percorsi di formazione, non cercano lavoro (Neet) e oltretutto non sono disponibili a lavorare, il 71,2% del corrispondente totale di 914mila giovani, e l’11,1% delle under 35, il 6° valore più alto in Ue.
Il lavoro è uno dei canali privilegiati per aumentare l’integrazione degli stranieri, soprattutto delle donne straniere ed in particolare di quelle che abitano nel Mezzogiorno: sono quasi un milione le straniere occupate (949mila), pari ad un decimo (10,0%) delle donne occupate.
Gli effetti della crisi post-pandemia sono concentrati sul lavoro indipendente che rispetto al 2019 registra un calo che risulta più intenso per le donne mentre su base annua si rileva un aumento trainato dalle donne e si apprezza in particolare la tenuta dell’imprenditoria femminile che impiega lavoratori: in entrambi i casi si osserva una tenuta migliore nel Mezzogiorno. Va inoltre segnalato che le crisi del XXI secolo hanno duramente colpito il lavoro indipendente mentre sono aumentati i dipendenti con una maggiore tenuta delle donne.
Passando ad analizzare conciliazione tra vita e lavoro si evidenzia che il tasso di occupazione delle donne tocca il massimo per le donne senza figli per diminuire in presenza di figli e con l’aumentare del loro numero: l’Italia è ultima in Ue per il tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni in coppia con figli a carico e la partecipazione delle donne al mondo del lavoro viene messa a dura prova soprattutto in presenza di figli piccoli. Fondamentale aumentare la diffusione dei servizi per l’infanzia che in Italia è inferiore rispetto alla media Ue con un netto ritardo dei Comuni del Mezzogiorno (ripartizione che registra un tasso di occupazione femminile inferiore a quello della Grecia, paese ultimo in Ue): su questo aspetto interviene il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che prevede l’aumento dei posti in asili nido e scuole infanzia. Serve inoltre correggere lo sbilanciamento che la spesa per welfare mostra a favore di sanità e pensioni per gli anziani a scapito di famiglia e giovani: l’Italia è 3° in Ue per peso sul PIL della spesa in welfare, ma crolla al 24° posto per spesa a sostegno di famiglie e giovani. La spesa pubblica sensibile al genere è il 13,6% della spesa pubblica totale e ammonta a soli 6 miliardi di euro la spesa della Pa destinata a ridurre le diseguaglianze di genere.
Migliorare le condizioni lavorative delle donne aiuta anche a contrastare gli effetti dell’inverno demografico con le nascite di bambini in calo e la popolazione che invecchia.
Sostenere le donne contribuisce a valorizza una parte qualificata del capitale umano. Le donne indipendenti sono maggiormente istruite: sono laureate quattro imprenditrici e lavoratrici autonome su dieci, quota quasi doppia rispetto agli uomini. Nonostante la minor presenza delle donne in percorsi scolastici STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), l’Italia è 12° in Ue per la quota di laureate in tali ambiti superando Germania e Spagna mentre gli uomini sono al 16° posto. Altro aspetto problematico relativo al capitale umano è l’arretratezza dell’Italia per spesa pubblica per istruzione per il cui peso sul PIL è 24° in Ue davanti solo a Bulgaria, Romania ed Irlanda mentre è 4° in Ue per peso della spesa pubblica totale.