50 anni di economia, piccole imprese e il ‘modello Nord est’ – focus Treviso
di Enrico Quintavalle, Responsabile Ufficio Studi Confartigianato
L’articolo per lo speciale 50° di Confartigianato Marca Trevigiana, novembre 2019
Negli ultimi cinquant’anni si è realizzata una profonda trasformazione del sistema produttivo italiano che si è adattato alle mutevoli condizioni di contesto nazionale e internazionale. Rimane tuttavia predominante un tratto caratteristico: la piccola impresa, che all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso occupava il 55% degli addetti delle imprese, oggi ne occupa il 65%. Nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, l’economia italiana consolida il periodo aureo, conclusosi con l’autunno caldo del 1969, registrando un tasso di crescita medio annuo del PIL del 3,7% a fronte del 6,4% registrato negli anni Sessanta. Il sistema manifatturiero acquista peso nell’economia italiana, con il relativo valore aggiunto che tra il 1969 al 1979 sale dal 25,6% al 28,5% del PIL. Si amplia la produzione delle imprese italiane venduta sui mercati esteri con il made in Italy che passa dal 16% del PIL del 1969 al 23% del 1979. Ma è anche vero che le due crisi petrolifere del 1973 e del 1979 minano la capacità competitiva delle imprese, determinando una elevata inflazione che, nel decennio, è in media pari al 12,5%, quasi nove punti superiore al 3,8% del decennio precedente. Con il secondo shock petrolifero il tasso di inflazione si innalzerà, nel 1980, al massimo del 21,1%. Negli anni Settanta, aumenta progressivamente il peso dello Stato in economia, con il rapporto tra spesa pubblica e PIL che sale di otto punti; il debito pubblico sale di oltre venti punti, passando dal 35% del 1969 al 57% del 1979.
Sul fronte della struttura imprenditoriale si osserva l’abbandono dei settori ad alta tecnologia da parte delle grandi imprese private mentre si afferma il modello delle piccole imprese raggruppate in distretti (Gigliobianco A. e Toniolo G., 1981). Si osserva inoltre una tumultuosa crescita delle imprese, trainato dalle micro e piccole imprese che aumentano di 582 mila unità; il loro peso in termini di occupati sale, infatti, dal 55% del 1971 al 63% degli addetti totali del 1981. La crescita delle piccole imprese è caratterizzata da innovazione e dinamismo degli investimenti (Battilani P. e Fauri F., 2014). La dinamica imprenditoriale e l’apertura internazionale del sistema produttivo delineano progressivamente le caratteristiche del ‘modello Nord est’. Nel solo Veneto, nel decennio in esame, le imprese aumentano di 87 mila unità, passando da 175 a 263 mila: si tratta della regione italiana più dinamica, con un aumento del 50% del numero delle imprese, il doppio rispetto al +26% medio nazionale e ampiamente superiore al +31% dell’Emilia Romagna, al +27% della Lombardia e al +19% del Lazio. Grazie all’impulso ricevuto in questo decennio il Veneto sarà la regione italiana con il più alto tasso di crescita delle imprese tra il 1971 e il 2001.
I successivi anni Ottanta si caratterizzano per una riduzione dell’inflazione associata ad un più basso ritmo di crescita dell’economia, con il tasso di sviluppo medio annuo che si limita al 2,2%. L’alto livello dei tassi di interesse e la dinamica della spesa corrente primaria fanno esplodere il debito pubblico che, tra il 1980 e il 1994, raddoppia, passando dal 55% al 117% del PIL. Le imprese, in particolare quelle di piccola dimensione, risentono della forte crescita della pressione fiscale che se nel 1980 era del 31,4% del PIL, dieci anni dopo è cresciuta al 38,3% e nel 1992 si attesta al 41,9%: dieci punti in più in dodici anni (Istat, 2011). Si estende la presenza dello stato in economia e la spesa pubblica – complice il crescente costo del debito – sale dal 40,8% del 1980 al massimo storico del 56,3% del 1993. Negli anni Ottanta si stabilizza il tasso di crescita delle piccole imprese (+5,5% nel decennio 1981-1991) mentre il loro peso cresce ancora e, nel 1991, arriva al 65,7% dell’occupazione totale delle imprese. Il peso delle esportazioni sul PIL rimane attorno ai venti punti percentuali, con una presenza sui mercati esteri caratterizzata dal ruolo emergente e trainante delle imprese del Nord Est. Tra il 1985 e il 1993 raddoppia il valore delle esportazioni totali di Veneto, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, registrando una crescita del 106%, quasi trenta punti in più dell’aumento medio del 78% delle vendite del made in Italy. Grazie a questo andamento, nel 1993 le regioni del Nord Est d’Italia arrivano ad esportare il 13% in più della nascente Federazione Russa, addirittura il 30% in più dell’intero Brasile. La forza delle esportazioni si coniuga con il crescente peso dei servizi, componente settoriale che vede consolidare il proprio peso nell’economia, con il relativo valore aggiunto che passa dal 54% del PIL nel 1980 al 61% nel 1993.
Dal 1993 al 2007 il sistema delle piccole imprese e dell’artigianato italiano opera in una realtà economica che diventa più complessa sia sul mercato interno che su quello internazionale. Vengono privatizzate numerose imprese pubbliche le quali irrompono su nuovi segmenti di mercato privato, spesso in posizione dominante. A fronte della crisi della finanza pubblica determinata dall’eccessivo peso del debito, si riducono gli spazi di spesa delle amministrazioni pubbliche, anche di quelle locali, e in parallelo tende a cresce il peso delle utilities locali le quali, in molti casi, entrano in diretta concorrenza con l’offerta delle micro e piccole imprese. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, istituita nel 1990, nell’arco di un decennio avvia oltre duecento istruttorie in materia di intese e di abuso di posizione dominante. Sui mercati esteri nella seconda metà degli anni Novanta le imprese esportatrici – e l’intera filiera della subfornitura che le approvvigiona – si adeguano alla nuova disciplina valutaria che vede l’adesione dell’Italia all’euro. Si avvia una nuova era della globalizzazione caratterizzata da un protagonismo crescente delle economie emergenti. Dal 2001 la Cina entra nel WTO e nell’arco di sei anni quadruplica il volume delle proprie esportazioni. Nello stesso arco di tempo la quota della Cina sulle importazioni in ingresso in Italia raddoppia passando dal 2,8% del 2001 al 5,8% del 2007. L’Italia nel 1995 possiede il 5% della quota di esportazioni mondiali, ma tale quota scende al 3,4% nel 2006. Il sistema della piccola impresa manifatturiera viene esposta ad una consistente selezione. La concorrenza basata sul prezzo, politica possibile in mercati meno globalizzati e con maggiore flessibilità del cambio, non è più sostenibile. Quote crescenti di piccole imprese artigiane – manifatturiere e non – adottano politiche di qualità e di innovazione del prodotto. Nel rapporto ‘Fare innovazione senza ricerca’ di Confartigianato e Censis del 2007, si indica che le micro e piccole imprese manifatturiere orientate all’innovazione investono in attività di ricerca e sperimentazione il 13,1% del monte ore complessivamente lavorate.
Nell’ambiente di riferimento delle piccole imprese persistono condizioni di scarsa competitività. L’introduzione dell’euro e una governance di bilancio sempre più integrata a livello europeo non viene accompagnata da riforme della Pubblica amministrazione in grado di dare maggiore efficienza all’offerta di servizi pubblici, fondamentali per le imprese per poter competere. Nonostante la spesa pubblica corrente primaria salga di oltre due punti di PIL passi dal 35,6% del PIL del 1995 al 37,8% del 2006, la performance di servizi pubblici essenziali per la gestione dell’impresa – tra cui pagamento delle imposte, procedimenti giustizia civile e ottenimento di licenze per nuove costruzioni – è particolarmente deludente: nel 2006 l’Italia è al 69° posto per l’indice Doing Business della Banca Mondiale e nel 2007 perde altre tredici posizioni, precipitando all’82° posto, facendo peggio di Panama (81° posto), Tunisia (80° posto) e Colombia (79° posto). Il Rapporto annuale Confartigianato presentato all’Assemblea annuale del 2006 indica che le micro e piccole imprese, solo per pagare le imposte, sostengono oneri per 6,9 miliardi di euro.
Sul mercato interno il settore delle costruzioni realizza un vero e proprio boom: il valore aggiunto del comparto passa dal 6% del totale del 2000 al 6,7% del 2006; nello stesso arco di tempo, le imprese artigiane registrate dell’edilizia e installazione di impianti passano da 436 mila a 561 mila. La tumultuosa crescita si rivelerà una bolla, con effetti disastrosi successivi allo scoppio.
Le piccole imprese italiane arrivano allo scoppio della Grande crisi, tra il 2007 e il 2008, attraverso un percorso caratterizzato dalla selettività sui mercati internazionali, da una elevata propensione all’investimento e all’innovazione che determina una crescente domanda di credito. In ‘Nulla è come prima’ (Sapelli G. e Quintavalle E., 2019) viene delineato, dal punto di osservazione delle piccole imprese, il decennio in cui due profondi e ravvicinati cicli recessivi hanno trasformato la struttura imprenditoriale italiana caratterizzata – come abbiamo visto, fin dagli anni Settanta – da un’alta presenza di piccole imprese. I cambiamenti dell’economia internazionale, del mercato del lavoro e di quello del credito, associati a persistenti criticità del contesto hanno mutato radicalmente il posizionamento di queste imprese, esasperandone le debolezze ma anche consolidandone i numerosi punti di forza. Le relazioni tra imprese nei distretti si scompongono e si ricompongono lungo più complesse e lunghe catene del valore, nazionali e transnazionali, ma mantengono viva nel nostro Paese una comunità di imprese (Colli A., 2012). I due cicli recessivi del 2008-2009 e del 2012-2013 hanno generato effetti depressivi sul PIL più ampi di quelli scatenati dalla crisi del 1929 che, già dopo otto anni, nel 1937, aveva completamente recuperato il picco di PIL pro capite antecedente alla crisi. Nella grande recessione del XXI secolo, invece, ad otto anni dal picco pre-crisi, vale a dire nel 2015, la diminuzione del 10,7% di PIL pro capite persisteva ancora. La crisi ha lasciato segni profondi anche nelle regioni più dinamiche e maggiormente orientate sui mercati esteri: si stima che nel 2018 il PIL del Veneto, valutato a prezzi costanti, sia rimasto al di sotto dell’1,9% rispetto al livello pre-crisi del 2007. Gli effetti sul mercato del lavoro sono stati molto pesanti: tra il 2008 e il 2013 sono stati persi 943 mila posti di lavoro. Nella successiva fase di ripresa 2014-2018, il livello pre-crisi degli occupati è stato pressochè interamente recuperato, ma nel 2018 le ore lavorate rimangono inferiori del 4,6% ai livelli di dieci anni prima. Per le costruzioni, con lo scoppio della bolla innescato dal velenoso mix di tassi di interesse alti, boom dell’imposizione immobiliare, seguito da una troppo debole ripresa, in dieci anni si registra una perdita cumulata di 551 mila occupati.
Nonostante la profondità della crisi, le piccole imprese hanno manifestato vitali segni di reazione. Negli ultimi cinque anni la produttività delle micro e piccole imprese manifatturiere italiane è salita del 18,6%, ritmo superiore all’incremento del 7,3% delle piccole imprese in Germania, del 4,4% in Spagna e dello 0,6% in Francia. In relazione a questa variabile, di grande rilevanza per l’interpretazione dei processi di crescita economica, è interessante valutare alcune eccellenze del territorio della Marca trevigiana. L’esame dei dati comunali forniti dall’Istat (2019) evidenzia che le oltre 700 unità locali delle imprese della manifattura e delle costruzioni (aggregato settoriale statisticamente denominato come Industria, ma costituito per il 66% da imprese artigiane) dei comuni di Fontanelle, Castelcucco, Portobuffolè, Ormelle, Pieve di Soligo e Maser, che danno lavoro a oltre 6 mila addetti, registrano un livello di produttività superiore a quella delle imprese tedesche operanti nello stesso comparto. Le oltre 1700 unità locali dei comuni di Salgareda, Nervesa della Battaglia, Vittorio Veneto e Treviso danno lavoro ad oltre 11 mila addetti e registrano una produttività del lavoro superiore a quella delle imprese francesi.
L’export nei settori dove predomina l’occupazione nelle micro e piccole imprese – alimentare, moda, legno e mobili, prodotti in metallo, gioielleria e occhialeria – nel 2018 sale al massimo storico di 128 miliardi di euro, il 7,3% del PIL. Con un esempio riusciamo a ben delineare la forza sui mercati internazionali dei territori caratterizzati dalla presenza diffusa di piccole imprese: nel settore dei mobili le imprese della provincia di Treviso esportano 1,8 miliardi di euro (anno 2018), il 6% in più export del settore dell’intera Svezia, il 33% in più di quanto viene venduto all’estero da tutti i mobilifici del Regno Unito. In provincia di Treviso, oltre 8 mila addetti, più della metà (51%) dell’intero comparto del mobile, lavorano nelle 882 micro e piccole imprese.
La crescita dell’export è stata caratterizzata dall’orientamento alla qualità del prodotto: l’Italia è il paese dell’Unione europea in cui il valore medio unitario delle esportazioni cresce di più rispetto alla media mondiale. Negli ultimi cinque anni il valore medio unitario del made in Italy sale del 10,8%: più di otto decimi di questo aumento è determinato dal maggiore valore intrinseco dei prodotti venduti, dato che i prezzi alla produzione salgono solo dell’1,8%. Il successo, qualitativo e quantitativo, del made in Italy vede protagoniste le piccole imprese italiane, leader nell’Unione europea per valore delle esportazioni dirette: il 3,5% del PIL, più del triplo dello 0,9% delle omologhe tedesche. L’analisi degli ultimi dati disponibili indica una salita della quota delle piccole imprese italiane che innovano e che investono in ricerca e sviluppo.
In conclusione, le traiettorie di cambiamento indicate dall’analisi statistica sollecitano la riflessione teorica capace di far meglio comprendere il posizionamento delle piccole imprese nell’universo delle popolazioni organizzative attive sui mercati e di contribuire alla elaborazione di elementi per una teoria dell’impresa. Si delinea un modello di piccola impresa fondata sulla relazione personale anziché su un sistema di ruoli, maggiormente presente in altre forme di organizzazioni produttrici di valore. Gli effetti della globalizzazione, i cambiamenti demografici, i driver della trasformazione digitale e della sostenibilità ambientale fanno emergere nella piccola impresa i tratti di un nuovo paradigma nel quale interazioni tra società, famiglia e tessuto imprenditoriale, rapporti tra imprese, discontinuità tecnologica e domanda dei fattori produttivi vanno proposti e analizzati per una nuova considerazione.
Riferimenti bibliografici
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